Il 9 settembre 1943 Piacenza cade sotto il controllo delle forze militari germaniche. In campo nazionale i rappresentanti dei partiti antifascisti costituiscono subito un unitario Comitato di Liberazione Nazionale e lanciano l’appello “alla resistenza e alla lotta”. Quelle già in atto in altri Paesi europei sottoposti alla occupazione nazista: esempio più rilevante il movimento partigiano di liberazione in corso nella vicina Jugoslavia.
L’appello investe naturalmente anche gli antifascisti piacentini, ma il passaggio dalle precedenti forme di resistenza politica al fascismo alla resistenza armata, addirittura nei confronti del potente ed efferato esercito hitleriano, è naturalmente arduo. Si chiede infatti a sparuti gruppi di uomini, molti dei quali non più giovani e reduci da anni di carcere e di confino, di porre in essere quello che il re Vittorio Emanuele III, il governo Badoglio e i generali italiani, dopo l’invasione tedesca, non avevano avuto il coraggio di intraprendere, pur avendo milioni di soldati in armi ai loro ordini.
Antifascisti ed ex militari rifugiati nelle zone montane per sfuggire alla cattura
Sono comunque questi sparuti antifascisti a dare impulso alla Resistenza, anche se, all’arrivo delle forze hitleriane d’occupazione, la prima preoccupazione di parte di coloro che dopo il 25 luglio erano stati liberati dal carcere e dal confino (i vecchi antifascisti) o che erano usciti per la prima volta allo scoperto, è quello di sottrarsi alla propria cattura. Abbandonano pertanto la propria abitazione e riparano in piccoli centri abitati dell’Appennino.
Per chi abita a Piacenza il naturale rifugio è l’alta Val Nure, approfittando del collegamento ferroviario fino a Bettola. Ad esempio, l’avvocato Metrodoro Lanza (cl. 1909, comunista) che si era esposto dopo il 25 luglio nelle riunioni promosse da Francesco Daveri, si ritira a Nicelli, frazione del comune di Farini; sarà lì un riferimento per altri antifascisti. Lorenzo Marzani (“Isabella”, 1910, anarchico), uno dei liberati dal confino dopo la prima caduta del fascismo, trova un luogo di rifugio ancora più periferico, la parrocchia di Peli, oltre il displuvio della Val Nure con la Val Trebbia. Sarà proprio Peli la prima importante sede di convegno in montagna degli antifascisti piacentini grazie anche alla disponibilità e collaborazione del giovane parroco don Giovanni Bruschi.
Da Fiorenzuola e dalla bassa Val d’Arda, i vecchi antifascisti più noti, quali i fiorenzuolani Giovanni Molinari e Arnaldo Tanzi (1918) si recano nel territorio di Bardi, comune del parmense confinante con l’alta Val d’Arda piacentina.
I paesi fuori mano dell’Appennino diventano il rifugio anche dei militari stranieri, in particolare di ufficiali britannici e jugoslavi fuggiti il 9 settembre dai rispettivi campi di prigionia (Da prigionieri a partigiani), e di militari piacentini ricercati dalle forze tedesche e destinati all’internamento e al lavoro coatto in Germania (Gli IMI). Uno di questi, il già caporal maggiore Giancarlo Finetti di S. Giorgio P.no, viene intercettato il 28 ottobre a Bettola e nel disperato tentativo di fuga cade sotto una raffica di mitra.
Costituito l’organo politico unitario per promuovere la Resistenza
I civili antifascisti invece, fra il mese di settembre e novembre, mentre è in corso la ricostituzione degli apparati informativi e repressivi del regime di Salò (La Rsi nel piacentino), dispongono ancora di una certa libertà di movimento. Anche chi si era rifugiato in montagna può tornare in città, mantenendo tuttavia i contatti là intrapresi.
A Piacenza si tengono incontri fra esponenti dei diversi orientamenti politici antifascisti. Attorno a Paolo Belizzi c’è un piccolo gruppo di militanti comunisti, in particolare Carlo Bernardelli (“Carlin”, 1902), Angelo Chiozza (1904), Guido Fava (1898), Giuseppe Narducci e Guglielmo Schiavi (“Iemo”, 1901). Sono sollecitati dai dirigenti nazionale del partito ad avviare la lotta ai nazi-fascisti. Francesco Daveri, esponente del mondo cattolico/DC, è a sua volta determinato all’azione.
Si giunge cosi, all’inizio di ottobre, alla costituzione del CLN piacentino. Oltre a Belizzi e a Daveri ne entrano a far parte Mario Minoia per il partito socialista, Raffaele Cantù per i Partito d’Azione e l’anarchico Emilio Canzi, incaricato del lavoro militare assieme a Molinari, Marzani e Narducci. Peli è riconosciuta come base organizzativa della Resistenza in montagna.
Una prima rete di resistenti
Si va in breve a formare una prima rete di antifascisti impegnati in particolare a soccorrere gli ex prigionieri e a organizzare il trasferimento clandestino di quelli britannici in Svizzera, a raccogliere armi e munizioni abbandonati dai soldati sbandati dopo l’8 settembre oppure sottratte all’Arsenale di Piacenza con la collaborazione dei dipendenti, e a raccogliere mezzi finanziari per sostenere il nascente movimento di Resistenza.
In queste attività, oltre ai già citati, cominciano ad emergere altre figure significative della Resistenza piacentina: Ercole Anguissola, Giuseppe Arata, Cesare Baio e con i genitori Francesco (1894) e Maria Carella (1899), Carlo Barbieri (“Carlon”, 1920), Vladimiro Bersani, il giovane frate Firmino Biffi in collegamento con Daveri, Luigi Broglio, Antonio Cristalli, Guido Fresco, l’ex colonnello Pietro Minetti, Silvio Nuvoloni (1900), Angelo Razza, Nereo Trabacchi (1899), Franco Parenti, Livio Sormani (“Il Moro”, 1897) e Luigi Tononi (1906, direttore di una azienda conserviera a S. Giorgio P.no).
Questa prima rete è costituita da vecchi antifascisti e da uomini che scendono in campo per la prima volta, con età in maggioranza fra i 35 e i 50 anni, ma anche da alcuni giovanissimi conquistati dagli ideali degli antifascisti.
Primi depositi di armi
Peli diventa la base dove sono trasferite, nascoste e custodite armi e munizioni con la collaborazione di Davide (1906) fratello di don Bruschi e di alcuni abitanti locali di sicuro affidamento. L’obiettivo è di attivare primi gruppi di partigiani combattenti.
Questo centro organizzativo della Resistenza viene però ben presto individuato e preso di mira dalle ricostituite milizie del regime fascista. Verso la fine di novembre don Bruschi è costretto a rifugiarsi a Piacenza e poi a passare clandestinamente in Svizzera. In dicembre militi della GNR salgono a Peli, vi sorprendono Marzani e lo conducono in carcere a Piacenza. Non trovano le armi nascoste anche se saccheggiano fra l’altro la canonica
Un’altro discreto quantitativo di armi e munizioni, abbandonate lungo il Po, viene raccolto presso la Cascina Baracca nei boschi di Roncarolo (comune di Caorso). Il 20 settembre, ad opera di Minetti, Belizzi, Marzani e Narducci, viene fatto giungere in una cascina di Bardi dove sono prese in consegna da Giovanni Molinari e Arnaldo Tanzi. Il 23 dello stesso mese Molinari è poi promotore e partecipe, con esponenti comunisti parmensi, di un incontro nel bardigiano con militari italiani sbandati ed ex prigionieri stranieri.
L’obiettivo dell’incontro è di indurre i presenti a costituire, con quelle prime armi, nuclei di resistenza armata alle forze nazifasciste. L’atteggiamento di quei militari rifugiati è però ancora attendista. Attendono e sperano che sia l’esercito anglo-americano a ricacciare in beve tempo dall’Italia gli occupanti hitleriani e a schiacciare definitivamente i fascisti.
Dai renitenti all’arruolamento della Rsi il concorso decisivo alla nascita della lotta armata
A porre fino all’attendismo, oltre alle difficoltà incontrate dagli Alleati a respingere rapidamente le forze tedesche verso il Nord Italia, è l’ambizione di Mussolini e del generale fascista Rodolfo Graziani di costituire un esercito della RSI da schierare in guerra a fianco della Germania nazista. I bandi di richiamo in servizio degli ex militari e quelli di reclutamento dei giovani di leva, emessi a partire dal novembre ’43, producono il fenomeno dei renitenti. Migliaia di questi si sottraggono all’arruolamento abbandonando le proprie abitazioni e cercando rifugio nel territorio montano dove si aggregano ai primi nuclei già presenti e attorno ad esponenti con esperienza militare e di comando, quali gli stessi ufficiali stranieri già prigionieri. Per respingere le milizie fasciste alla loro caccia vengono imbracciate le armi disponibili e, per procurarne altre, vengono sorpresi e disarmati i presidi militari locali della Rsi.
Il 23 dicembre ’43, in comune di Bettola, una squadra della GNR fascista alla ricerca dei renitenti è fronteggiata dai fratelli Severino e Agostino Maschi presso il Passo del Cerro e il milite Ugo Rossini resta sul terreno. E’ la prima vittima della resistenza partigiana.
Il 23 gennaio ’44, tredici agenti della GNR, mentre salgono con un automezzo nella parte alta del comune di Piozzano per prelevare i locali renitenti, sono affrontati dagli abitanti armati prevalentemente di fucili da caccia: due agenti perdono la vita e quattro restano feriti (L’agguato di Vidiano).
Con il gennaio ‘44 cominciano a formarsi anche le prime significative bande di partigiani, mentre la costituzione di vere e proprie brigate (200 – 300 componenti) avverrà solo all’inizio dell’estate. I “vecchi antifascisti” assumeranno in molte di esse l’incarico di “commissario politico”, con il compito fra l’altro di trasmettere ai giovani cresciuti nel ventennio fascista i valori e gli obiettivi della lotta partigiana di liberazione.
R.R. con il contributo di altri
Bibliografia
- Luciano Bergonzini, La lotta armata, in “L’Emilia Romagna nella guerra di liberazione”- vol. primo, De Donato, 1975
- Arrigo Boldrini, Enciclopedia della Resistenza, Teti editore, 1980
- Mirco Dondi, La Resistenza fra unità e conflitto, Bruno Mondadori, 2004
- Gino Pancera, Due stagioni in Val Nure, Vicolo del Pavone, 2005
- Franco Sprega, Il filo della memoria – Fatti e cronache di Fiorenzuola …,Le.Co, 1998