Origine contadina, falegname, antifascista già a 15 anni, nel 1930 confinato nell’isola di Lampedusa e poi in quella di Lipari, di nuovo arrestato nell’aprile 1943. Dopo l’8 settembre è fra i primi organizzatori della Resistenza, entra a far parte del CLN piacentino in rappresentanza dei comunisti, il suo laboratorio a Piacenza diventa un centro di raccolta e smistamento di stampa clandestina e di armi. Costretto a lasciare la città, condivide l’esperienza della Libera repubblica di Bettola. Dopo la Liberazione, a 70 anni è ancora impegnato a promuovere l’antifascismo fra i giovani.
Contro i fascisti dal 1921
Aldo Belizzi, detto Paolo, nasce a Quercioli di Podenzano nel 1906, penultimo di sette figli, in una famiglia contadina. Sin da ragazzo è avviato al lavoro di falegname, che eserciterà con riconosciuta maestria per oltre mezzo secolo. Assieme al fratello Mario (il partigiano “Raimondi”), maggiore di tre anni, partecipa giovanissimo all’esperienza degli Arditi del popolo di Piacenza, che, sotto la guida dell’anarchico Emilio Canzi, contrastano nel 1921-22 il nascente fascismo. Trasferitosi a Sant’Antonio e poi all’Infrangibile, stabilisce, anche grazie all’attività di sarta della sorella Luisa, un solido contatto con le operaie dei numerosi bottonifici piacentini, e con la loro rappresentante, Linda Roda, promuove il grande sciopero di una settimana del 1930.
Condannato al confino
Il 29 luglio dello stesso anno è arrestato insieme a Guido Fava per propaganda antifascista e inneggiante all’Internazionale comunista. Il gruppo clandestino di antifascisti comunisti piacentini (Mario e Paolo Belizzi, Carlo Bernardelli, Angelo Chiozza, Guido Fava, Guglielmo Schiavi, e con loro l’anarchico Emilio Cammi) subisce un duro colpo, ma riesce a sottrarsi al Tribunale speciale. Dopo mesi di interrogatori e torture, Paolo è condannato a cinque anni di confino (Lampedusa e Lipari); viene liberato alla fine del ’32 in occasione dell’amnistia nel decennale della Marcia su Roma.
Si rifiuta di firmare la lettera di ringraziamento al Duce e, per evitare le continue angherie nei confronti della famiglia, si allontana per alcuni anni dalla città, lavorando come falegname a Pianello Val Tidone. Rientrato a Piacenza, riprende l’attività di propaganda clandestina alla fine degli anni Trenta. Nuovamente arrestato nell’aprile ’43, esce da San Vittore il 26 luglio, il giorno dopo la caduta del fascismo.
Membro del CLN piacentino, organizzatore della Resistenza
All’indomani dell’8 settembre, è tra i più attivi nel tentare una prima resistenza ai tedeschi e poi nell’organizzare la lotta, promuovendo le prime squadre Sap in città. Segretario della federazione comunista, è con Francesco Daveri nel primo Cln piacentino, di cui sarà autorevole riferimento fino all’estate ’44. Uomo di poche parole ed estremo rigore, comunista sui generis, il suo instancabile impegno nell’organizzare la Resistenza piacentina è profondamente segnato dal rapporto di amicizia e stima reciproca coi cattolici Francesco Daveri e don Giovanni Bruschi, con l’anarchico Canzi, nonché con l’azionista bolognese Mario Jacchia (“Rossini”), responsabile militare del Comando Militare Nord Emilia. Di fatto, dall’ottobre ’43 il laboratorio di falegnameria di Belizzi, in via Benedettine, costituisce un vero e proprio centro di raccolta e smistamento di armi e stampa antifascista per tutta la provincia di Piacenza (parola d’ordine: «vorrei una camera di palissandro»).
Dopo l’assassinio di Angelo Chiozza (25 aprile ’44), anello fondamentale del lavoro di raccolta e smistamento delle armi, Belizzi deve allontanarsi dalla città verso Bosco dei Santi, dove trascorre diversi mesi, fino all’incendio della Baracca di Roncarolo, divenuta nel frattempo il centro di coordinamento del lavoro delle squadre di pianura. A inizio ottobre del ’44 è trasferito al Comando Unico con sede a Bettola, dove espleta attività di amministratore nei restanti due mesi in cui si regge la Libera repubblica, fino al grande rastrellamento della Turkestan di inizio dicembre. Trascorre l’ultimo inverno prima della Liberazione in Val Tidone.
Dopo la Liberazione
Finita la guerra è tra i componenti della Commissione provinciale di epurazione e primo presidente della Libera associazione artigiani, dall’ottobre 1945 al settembre ’47. Negli anni del dopoguerra è molto impegnato nel lavoro, pur dovendo convivere con non trascurabili problemi di salute, a partire da un blocco renale che lo colpisce nel 1953. Nel 1970 pubblica Il gerarchetto (Piacenza, Gallarati): un opuscolo fortemente polemico con il parmense Remo Polizzi “Venturi” (che lo aveva rimosso e sostituito alla guida del Pci nell’estate ’44), per i suoi giudizi svalutativi sull’attività del gruppo comunista piacentino degli anni Trenta.
Comincia a collaborare attivamente con movimenti giovanili di Nuova sinistra. Dal 1976 è presidente del CAM, Comitato antifascista militante. Nel 1983 pubblica Quelle che non fanno storia. Pagine della cospirazione antifascista a Piacenza. Muore nel 1986. Dal 2003 gli è intitolata una via di Piacenza, in zona Le Mose.
G. D’A