Nel pomeriggio del 25 gennaio 1945 una delle più potenti e fanatiche voci del clerico-fascismo salodiano echeggiò in piazza Cavalli: quella di padre Eusebio (all’anagrafe, Sigfrido) Zappaterreni. Il frate francescano scaldò il corpo e l’anima del “forte popolo piacentino” predicando la guerra santa contro le forze asservite a Satana (anglo-americani, bolscevichi, ebrei) e dando certezza del soccorso divino (“Dio è con noi”, “Cristo è con noi”) per completare l’opera di annientamento dei nemici esterni e interni. Alcuni giorni dopo, sotto le nere ali del Tribunale militare straordinario, venne montato un processo a carico di un giovane sacerdote patriota, da poco arrestato, con l’intento di colpire nel mucchio, ovvero di sanzionare pesantemente l’orientamento ostile verso la RSI di Salò di gran parte del clero diocesano. La vittima sacrificale di quell’operazione, cinica e disperata ad un tempo, fu don Giuseppe Borea.
La vocazione sacerdotale
Giuseppe Borea nacque a Piacenza il 4 luglio 1910, primo di sei figli, all’interno di una famiglia dalla forte connotazione cattolica (uno zio materno sacerdote, due sorelle suore canossiane). Nel settembre 1924 entrò in seminario (Bedonia, Fidenza, Piacenza); il 28 marzo 1936 venne ordinato sacerdote. Dal settembre 1937 al gennaio 1945 resse la parrocchia di Obolo, frazione del comune di Gropparello. Nel periodo antecedente l’8 settembre 1943 è documentato un solo episodio che ruppe la formalità delle relazioni con le autorità fasciste locali: nel maggio 1939 il giovane parroco entrò in conflitto con il segretario del Fascio di Gropparello, portatore di istanze totalitarie nell’ambito educativo, difendendo il diritto per gli appartenenti alla gioventù maschile di Azione Cattolica di esibire nella vita pubblica il distintivo dell’associazione.
Il sacerdote patriota
Il corso della vita di don Borea mutò radicalmente con gli inizi della Resistenza e la nascita, nell’aprile 1944 in alta val d’Arda, della 38ª brigata Garibaldi, guidata da Vladimiro Bersani e, successivamente, da Giuseppe Prati. Nel luglio 1944 il sacerdote chiese (ed ottenne) di entrare nella brigata con il ruolo di cappellano militare. L’intensa attività da lui svolta nei sette mesi successivi è stata ben sintetizzata dal comandante Prati: “Per mio ordine e per sua iniziativa, visitava i campi di concentramento apportando conforto morale e materiale. Dava la sua opera di assistenza e di propaganda fra i partigiani. Quale cappellano ufficiale della formazione assistette a tutti i casi di fucilazione preparando i condannati, raccogliendo le loro ultime volontà che dietro mio permesso trasmetteva poi alle famiglie interessate. Li assisteva all’ultimo momento, poi ne raccoglieva le salme, le componeva, sempre dietro autorizzazione del Comando, nelle bare che vennero tumulate nel cimitero di Obolo. In alcuni casi si interessò presso il Comando per rendere le salme alle loro famiglie”.
Don Borea svolse questi molteplici compiti senza trascurare gli impegni parrocchiali: in questo senso, pur condividendo, anche durante l’ultimo pesantissimo rastrellamento invernale, i disagi e i perigli della formazione cui si era aggregato, la canonica di Obolo restò sempre per lui una sorta di centro gravitazionale.
L’arresto, il processo, la fucilazione
Qui, il 28 gennaio 1945, venne arrestato da un gruppo di miliziani della GNR provenienti da Piacenza e subito trasferito nel carcere del capoluogo. Gravissimi i capi d’imputazione a suo carico: partigianato militante, connivenza in spionaggio, ricettazione di merce rapinata a mano armata, uccisione di tre fascisti, sevizie inferte ai cadaveri di alcuni fucilati, tentato incesto nei confronti della sorella Luisa, violenza carnale nei confronti della ragazza di servizio presso la canonica. Su questa base prese avvio un’operazione giudiziaria e mediatica (grazie anche a due infamanti articoli usciti su “La Scure” il 7 e 10 febbraio nei quali l’arrestato veniva qualificato come un “indegno prete”, “sadico nella sua volontà di sangue” e “insensibile all’esempio del Cristo che avrebbe dovuto servire ed esaltare nel sacrificio incruento dell’Altare”) finalizzata alla distruzione morale, politica e fisica di don Borea del tutto disancorata da riscontri fattuali, al di là della ben nota appartenenza del sacerdote al movimento partigiano.
Il processo ebbe luogo il 6 febbraio senza adeguato contraddittorio e si concluse con una sentenza, già scritta, di condanna a morte. Del tutto vana fu la richiesta di grazia inoltrata dal vescovo mons. Menzani al capo della Provincia Graziani e al Comando regionale militare di Alessandria nella persona del generale Delogu.
Nel tardo pomeriggio del 9 febbraio don Borea venne trasferito presso il cimitero di Piacenza e fucilato da un plotone di dodici uomini. Queste le ultime nobilissime parole del condannato, raccolte dal cappellano militare don Bonomini: “Muoio innocente. Perdono di cuore a tutti coloro che mi hanno fatto tanto male e anche a voi che dovete sparare. Spero che il mio sacrificio giovi alla patria nostra. Se stasera sarò in paradiso, pregherò per tutti e perché Iddio faccia sorgere giorni più sereni e più belli per l’Italia”.
Al sacerdote piacentino è stata conferita la medaglia d’argento al valor militare “alla memoria”.
Bibliografia
- “La Scure”, 7/2/1945, Il prete Giuseppe Borea accusato di ribellismo, di spionaggio in favore del nemico e di ricettazione di merce rapinata dai fuorilegge con mano armata condannato alla pena capitale.
- “La Scure”, 10/2/1945, Don Borea è stato fucilato.
- “Il Po”, 14/9/1945 e 1/10/1945, Luce completa intorno al processo di don Borea [I due articoli riproducono il diario di mons. Francesco Castagnetti, incaricato dalla Curia di occuparsi della difesa di don Borea].
- “Il Po”, 1/11/1945, La morte [L’articolo riporta la testimonianza del cappellano militare don Giuseppe Bonomini].
- Lucia Romiti, Giuseppe Borea. Quando l’amore è più forte dell’odio, Il Duomo, Piacenza 2018.
L. O.