Giovanni Bruschi è stato il primo prete partigiano della provincia piacentina. Tenuto in grande considerazione dal vertice politico-militare (ovvero, da Francesco Daveri ed Emilio Canzi), ha profuso straordinarie energie nella lotta di liberazione mettendo a repentaglio in più di un’occasione la propria vita. Al tempo stesso, con riferimento al suo status sacerdotale, è stato un personaggio a dir poco ingombrante per l’autorità diocesana: ciò è testimoniato da un suo scritto, pubblicato nel 1989, nel quale ripercorrendo le vicende della Resistenza ha messo in evidenza le sue traversie di prete “emarginato” nei mesi della clandestinità e dell’esilio e non ha risparmiato strali al vescovo di Piacenza (“era notissima la fedeltà al regime del vescovo Menzani, come erano note le sue prediche che si chiudevano con una esaltazione all’inclito Duce e al felice esito della guerra”) e al suo collaboratore mons. Mondini.
Gli inizi della militanza partigiana
Nato a Bedonia nel maggio 1914, studiò presso il locale seminario vescovile (fino al termine del corso liceale) e, successivamente, presso il seminario di Piacenza; nel 1941 venne ordinato sacerdote; nel corso dell’anno successivo, dopo una breve esperienza in qualità di coadiutore a Gropparello, divenne parroco di Peli (comune di Coli). Qui dopo l’8 settembre 1943 si costituì un primo nucleo di partigiani che operò in sinergia con il primo Cln provinciale (Daveri, Belizzi, Minoia) e che si avvalse della competenza militare di un reduce della guerra civile spagnola, l’anarchico Canzi.
Da Piacenza vennero fatte arrivare armi attraverso la val Nure e la val Trebbia: armi nascoste sul cornicione interno della chiesa e successivamente interrate in una cascina dei dintorni. Intensa fu, in questa fase, l’attività antifascista di don Bruschi: diede ospitalità ai “primi ardimentosi”, prestò soccorso a ufficiali britannici fuggiti dal campo di Veano e predicò il nuovo verbo ai parrocchiani spingendoli verso forme di disobbedienza civile (non risposta alla chiamata di leva e non consegna del grano all’ammasso).
Questo intenso lavorio non sfuggì all’occhiuta autorità fascista: attivamente ricercato, all’inizio di novembre il sacerdote decise di entrare in clandestinità trasferendosi a Piacenza, dapprima ospite dei frati di Santa Maria di Campagna e poi del parroco di San Savino. Una posizione imbarazzante per il vertice diocesano che proprio in quei giorni, attraverso un articolo del vicario vescovile mons. Sgorbati apparso su “Il Nuovo Giornale”, invitò i cattolici piacentini a cooperare con la Rsi (“osserviamo le disposizioni dell’Autorità che presentemente è investita del potere ed ha la responsabilità dell’ordine”). In questo senso, l’incontro chiarificatore, avvenuto “una sera di dicembre nebbiosa e buia”, tra mons. Mondini (incaricato dalla Curia per i rapporti con le autorità civili politiche e militari) e lo stesso don Bruschi non riservò sorprese e si concluse con un perentorio invito al ribelle a consegnarsi alle camicie nere. Il 14 gennaio 1944, don Bruschi, condividendo una decisione presa con Daveri e Canzi, lasciò Piacenza e attraverso Milano raggiunse il territorio svizzero (“passando il confine italiano piansi”).
L’esilio in Svizzera
Nella nuova vita di esule il sacerdote non venne meno all’impegno antifascista: fu assiduo presso l’ambasciata inglese e americana di Lugano, mantenne fitti contatti con esponenti della resistenza cattolica e non (Malavasi, Malvestiti, Daveri, ecc.) e prestò assistenza spirituale ai soldati italiani del 7° Cavalleria internati in sei centri di raccolta del Bernese. Un compito, in quel contesto storico, di routine per un sacerdote nel quale, tuttavia, non mancò di riversare il suo spirito ribelle denunciando le gravi responsabilità di Vittorio Emanuele III “complice con Mussolini dell’aver coinvolto l’Italia nella seconda guerra mondiale”.
Il cappellano capo del Comando Unico
Nel settembre 1944, dietro sollecitazione di Daveri interessato a potenziare l’assistenza religiosa alle formazioni partigiane, si ebbe il suo rientro in Italia, dapprima a Milano e poi nel Piacentino. Dopo essere stato ospite del parroco “antifascista” di Gusano (comune di Gropparello) raggiunse, ai primi di ottobre, Bettola, sede del Comando Unico, recando con sé una lettera del Comando generale del C.V.L. cui diede seguito il comandante Canzi nominandolo senza indugio cappellano capo del servizio religioso. Nelle settimane che precedettero il grande rastrellamento invernale il sacerdote svolse un’attività frenetica: mantenne efficienti i collegamenti tra il Comando Unico e le divisioni “Giustizia e Libertà” e “Val d’Arda”, si occupò dei prigionieri (ottenendo, tra l’altro, la liberazione dello scalabriniano padre Corbellini), ebbe cura delle scuole e delle varie amministrazioni dei comuni liberi e celebrò, in quel di Bettola, vari funerali di partigiani caduti in combattimento. Una celebre fotografia lo ritrae, al fianco di Canzi, mentre porge l’estremo saluto al capitano Mak (lo scozzese Arcibald Macdonald Makenzie) deceduto il 6 ottobre nella battaglia di Albarola (comune di Vigolzone).
Il 28 novembre 1944 partecipò alla battaglia di Peli impegnata dai partigiani della divisione “Giustizia e Libertà” con l’intento, risultato vano, di bloccare la tracimazione delle truppe nazi-fasciste dalla val Trebbia alla val Nure. Seguì la fase travagliata dello sbandamento durante la quale don Bruschi “tutto condivise con gli uomini, i pericoli più gravi, ogni fatica, il freddo, la fame, anche i pidocchi” godendo della protezione, davvero salvatrice, della popolazione di Peli e dei parroci di Grondone, Mareto e Pradovera.
La ripresa dell’iniziativa partigiana nella primavera successiva lo vide di nuovo a fianco di Canzi al quale restò legato anche nei drammatici giorni del suo “famigerato arresto” deciso dal Comando Militare Nord Emilia (controllato dalla componente comunista). La liberazione di Piacenza, avvenuta il 28 aprile 1945 dopo tre giorni di combattimenti, li fece di nuovo incontrare: “un lungo affettuoso abbraccio” rese testimonianza di un rapporto che nel vissuto di don Bruschi fu quello che si instaura tra un padre e un figlio.
Il dopoguerra
Nell’immediato dopoguerra il sacerdote fu partecipe dell’opera di assistenza verso i reduci dei campi di concentramento nazisti avviata dalla diocesi, sotto la supervisione di mons. Ugo Civardi, presso la villa estiva del collegio Alberoni a Veano. Successivamente, la ricollocazione in vari siti della diocesi (Tavasca, Besozzola, Cacciarasca) e l’approdo nel 1977, nella veste di cappellano, al Policlinico di Milano, fino alla morte avvenuta nel gennaio 1991. Il suo corpo è sepolto nel cimitero di Pecorara, uno dei luoghi-simbolo della resistenza piacentina, sede operativa nell’ultima fase della lotta partigiana del comando della divisione “Giustizia e Libertà”.
Bibliografia
- “Il Nuovo Giornale”, 2/12/1943, mons. Italo Sgorbati, Orientamenti
- Ziliani, Ribelli per amore. Fatti e testimonianze, Arte Grafica, Fidenza 1978
- Nella bufera della Resistenza. Testimonianze del clero piacentino durante la guerra partigiana, a cura di A. Porro, s. e., Piacenza 1985
- Bruschi, La resistenza piacentina e la figura di Paolo Belizzi: memorie e testimonianze, Vicolo del Pavone, Piacenza 1989
L. O.