È una componente della resistenza al nazifascismo anche quella opposta dai militari italiani che dopo l’8 settembre 1943 sono deportati nella Germania hitleriana. Deportati e non trattati come prigionieri di guerra, con le tutele delle convenzioni internazionali, ma considerati invece degli “internati militari”, che dovrebbe essere una classificazione più favorevole e che invece le autorità naziste utilizzano per un trattamento a loro discrezione, in particolare come forza lavoro.
La resistenza ai nazifascisti non è di tutti i deportati, ma della maggior parte di essi. Si esprime, innanzitutto, nel rifiuto di aderire al nuovo regime fascista di Salò e di entrare a far parte delle sue formazioni militari fiancheggiatrici di quelle tedesche. Un rifiuto che costa a quegli uomini, invece del ritorno in Italia, il rimanere in un lager, subire un duro lavoro e soffrire fame, freddo, deperimento e angherie di ogni tipo, fino alla morte per diversi di loro.
I militari piacentini che soggiacciono a quella condizione sono oltre 5.000, almeno 135 i deceduti.
Altri torneranno in Italia con la salute minata.
Luoghi di cattura e caratteristiche degli internati militari piacentini.
In assenza di documenti ufficiali gli storici si sono orientati a fissare in 620.00-650.000 i militari italiani deportati nei lager della Grande Germania del tempo e in 40.000-50.000 i deceduti, dei quali 500-600 trucidati dalle SS negli ultimi due mesi della guerra.
I nomi e alcuni dati dei 5.188 Imi piacentini sono stati, dopo il ritorno in Italia, registrati in apposite schede dell’Associazione Nazionale Reduci della Prigionia (ANRP), schede custodite dalla Sezione di Piacenza della Associazione Nazionale Combattenti e Reduci (ANCR) che ne ha fornito copia all’ISREC. L’istituto piacentino di ricerche storiche le ha comprese in un database in formato digitale, sul quale un laureando (il nome in bibliografia) ha realizzato elaborazioni ed analisi che vengono in parte qui riprese.
I 5.188 registrati in quelle schede non sono precisamente tutti gli IMI piacentini (l’ISREC li ha stimati in circa 5.800); quelle schede offrono comunque un significativo quadro di dati su di essi.
I due terzi risultano catturati nei paesi stranieri che erano stati invasi dall’Italia fascista: 1.754 (cioè il 33,8%) in Grecia, 826 (15,9%) in territori della Jugoslavia, 382 (7,36%) in Francia e Corsica, 381 (7,34%) in Albania. Il dato di solo un terzo provenienti dall’Italia indica certamente che nel proprio paese anche i militari piacentini sono riusciti in maggior misura a sfuggire alla cattura.
Il 47,6% ha fra i 19 e i 25 anni, la metà fra i 26 e i 35, 155 più di 35 anni. Quasi tutti dunque hanno già sofferto diversi anni di guerra.
Il 28% sono disarmati è in mano tedesca già la sera dell’8 settembre 1943, più della metà entro il giorno dopo, l’80% entro il 12 settembre. I militari tedeschi non desistono poi da una caccia capillare, che porta alla cattura degli ultimi 274 piacentini nel mese di ottobre. Ciò evidenzia una volta di più la ben pianificata e fulminea azione delle forze militari hitleriane all’annuncio
dell’armistizio con gli Alleati, a fronte dell’inerzia degli alti comandi italiani nonostante prevedessero quella aggressione.
In vagoni bestiame verso l’ignoto
Per facilitare la resa dei militari italiani, quelli delle Wehrmacht aveva fatto sapere che chi non accettava di rimanere in servizio a fianco dell’esercito tedesco sarebbe stato libero di tornare alla propria famiglia. Invece tutti coloro che hanno consegnato le proprie armi si vedono poi incolonnati sotto la minaccia di quelle tedesche e condotti, a volte con lunghe marce forzate, in centri di raccolta e da lì nei giorni seguenti caricati su vagoni bestiame e avviati verso un destino ignoto. Dalla penisola balcanica il viaggio verso nord dura anche una ventina di giorni e i militari piacentini già in quel trasferimento cominciano a conoscere la condizione a cui stanno andando incontro, a cominciare dalle umiliazioni, violenze e fame.
Glu ufficiali sono separatamente condotti fino in Polonia, ancora occupata dalla Germania, e chiusi negli Offizierslager. Hanno inizialmente un trattamento migliore, ma anche molti di essi saranno alla fine sottoposti al lavoro forzato.
Gli altri militari piacentini sono distribuiti negli Mannschraftlager di diversi distretti militari della Germania: vasti insiemi di baracche in legno circondate da filo spinato, con al centro un piazzale dove gli internati subiranno infiniti appelli, anche di notte e al gelo.
Il rifiuto della collaborazione con i nazifascisti e il duro trattamento.
Appena arrivati vengono immatricolati con un numero d’identificazione inciso su una piastrina di riconoscimento che sostituisce il nome. Poi, in apposite adunate, rappresentanti del regime di Salò li allettano e forzano per farli entrare nelle nuove formazioni militari fasciste con le quali – dicono quelli – dopo un breve addestramento in Germania torneranno in Italia.
L’invito è respinto da oltre il 90% dai soldati italiani internati e fra di essi vi sono i 5.188 piacentini qui considerati, anche perché stanno constatando che il fascismo alla fine è solo propaganda, inganno e tragedia per il popolo italiano, e la Germania nazista un immenso e terribile carcere per gli italiani e gli altri popoli europei.
Anche per i piacentini quei grandi lager, posti in siti isolati, sono generalmente solo di transito perché la loro destinazione è il lavoro coercitivo in miniere, fabbriche di armi, lavori edili e agricoli. I 5.188 sono infatti frammentati e dispersi in 107 campi di detenzione satelliti, più prossimi ai luoghi d’impiego. Per tutti comunque, salvo per i pochi utilizzati in aziende agricole, scarsa e scadente alimentazione, mancanza di protezioni dal freddo, pessima situazione igienica, malattie senza assistenza sanitaria, e continue coercizioni disciplinari. Tutto questo combinato con un duro lavoro, più defaticanti marce quotidiane per recarvisi e frequenti trasferimenti da un lager all’altro. E l’angoscia di non sapere quando e come tutto questo potrebbe finire, mentre muoiono compagni per deperimento organico e le SS stanno diventando più feroci.
L’odissea del ritorno in Italia
Alla fine, solo dopo essere stata in gran parte occupata dagli eserciti alleati, la Germania nazista si arrende, ma da quel paese devastato anche il ritorno in Italia è una odissea per molti degli internati piacentini. Solo in 1.178 riescono a tornare entro il mese di giugno 1945, la maggior parte, 3.393, fra luglio e ottobre, 104 entro dicembre, 106 entro maggio 1946 e 110 più tardi.
Hanno la gioia di rivedere ed abbracciare i propri famigliari ma anche l’amarezza di constatare che la loro storia d’internati in Germania è malintesa nel clima di un dopo Liberazione dal nazifascismo di cui altri, i combattenti partigiani, sono stati diretti protagonisti. Solo quando verranno in luce tutti i passaggi della vicenda degli Imi, e le grandi sofferenze patite da quegli uomini in balia delle autorità naziste, la loro storia sarà collegata a quella della Resistenza.
Bibliografia
- Alberto Rossi, Memoria dimenticata, memoria ritrovata. Gli Internati Militari (IMI) della Provincia di Piacenza: un caso di studio, Tesi di laurea al Corso di Laurea Magistrale Interfacoltà in Storia d’Europa del Dipartimento Studi Umanistici dell’ Università degli Studi di Pavia, Anno Accademico 2013-2014. (Il testo della tesi è stata messo a disposizione dall’autore per questa voce dell’enciclopedia).
- Avagliano/M. Palmieri, I militari italiani nei lager nazisti. Una resistenza senz’armi 1943-1945, Il Mulino, Bologna 2021
- Ugo Dragoni, La scelta degli I.M.I.- Militari italiani prigionieri in Germania (1943 1945), Le Lettere, Firenze 1997.
- Gabriele Hammermann, Gli internati militari in Germania 1943-1945, Il Mulino, Bologna 2021.
- Rossella Ropa, Prigionieri del Terzo Reich. Storia e memoria dei militari bolognesi internati nella Germania nazista, Clueb, Bologna 2008.
Cartina dei campi per gli Imi da: https://museodellinternamento.it/lager/dda