L’esterno del lato sinistro del muro perimetrale del cimitero di Piacenza, in corrispondenza del III reparto, al tempo della Rsi divenne “il muro dei fucilati”, il luogo delle esecuzioni degli antifascisti. Lungo quel muro insanguinato e segnato da proiettili furono molti i fucilati. La serie delle esecuzioni iniziò all’arrivo del prefetto Alberto Graziani, classe 1903, originario di Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza. Era un uomo dalla statura imponente, mutilato di guerra e superdecorato con due medaglie d’argento al valor militare; una gli era stata conferita dal generalissimo Francisco Franco in occasione della sua partecipazione, come ufficiale carrista, alla campagna di Spagna.
Nominato prefetto nel Consiglio dei ministri del 18 aprile 1944, sotto la presidenza del Duce, e destinato a Capo della provincia di Piacenza a decorrere dal 20 luglio del 1944, uno dei primi atti di governo di Alberto Graziani è la sua opposizione al rilascio di due partigiani prigionieri in cambio di fascisti catturati dai partigiani.
Le prime esecuzioni al “muro dei fucilati”
La prima esecuzione al muro di fucilati ha luogo il 27 luglio del 1944. A ridosso di quel muro è messo a morte un uomo di cui è noto solo il nome, Carlo Barabaschi, e l’appartenenza alla 38a brigata SAP. Pochi giorni più tardi, il 9 agosto, la stessa sorte tocca a due partigiani di Travo, appartenenti alla III brigata della divisione Giustizia e Libertà: Piergiorgi Andrea, di anni 25 e Artemio Zurla di anni 21.
Il 19 agosto, al muro del cimitero è messa a morte Luigia Repetti, 42 anni, originaria di Ziano. Laureata in lingua tedesca, era stata presa a lavorare come interprete presso il comando tedesco di Piacenza. Quando i germanici apprendono però dai fascisti che il figlio della loro interprete milita fra i partigiani s’insospettiscono. Arrestano Luigia e la Gestapo la sottopone ad un lungo interrogatorio. Non trovano nulla contro di lei e alla fine la rimettono in libertà. Il vicequestore di Piacenza e capo dell’ufficio politico, Amedeo Pondrelli, non credendo all’innocenza della donna, la fa di nuovo arrestare, sottoporre ad un interrogatorio di terzo grado e, durante la notte, fucilare quasi clandestinamente al cimitero da esponenti della “Muti”, legione fascista autonomo con comando a Milano e un contingente anche a Piacenza.
La fucilazione del Ballonaio, di Paolo Araldi e di don Borea
Il 19 gennaio del 1945, al termine di un processo sommario celebrato al tribunale di Piacenza, Giovanni Lazzetti detto il Ballonaio, capo della “volante degli audaci” della divisione “Giustizia e Libertà”, è condannato a morte con “sentenza ad effetto immediato”. Era stato catturato il giorno prima a Castel S. Giovanni, venduto da una spia. Rinchiuso in una cella della caserma di via Beverora, durante la notte decine di fascisti si erano recati a vedere il famoso comandante e il Ballonaio aveva chiacchierato e scherzato con loro
Viene portato al muro dei fucilati nel tardo pomeriggio dello stesso 19 gennaio. A guidare il plotone d’esecuzione è un brigadiere della Brigata Nera “Pippo Astorri”. Giovanni ha 25 anni. Viene fucilato alle spalle dopo aver fumato l’ultima sigaretta. Un attimo prima della fatale scarica grida: Viva l’Italia”.
Il 7 febbraio è la volta di Alberto Araldi, detto Paolo, 33 anni, già vicebrigadiere dei carabinieri e diventato, dopo l’adesione alla Resistenza, comandante della III brigata della divisione Giustizia e Libertà, nonché vice comandante della stessa divisione, a fianco di Fausto Cossu. Tradito e attirato in una trappola da un confidente che faceva il doppio gioco, il sottotenente paracadutista Edoardo Latty, era stato catturato il giorno prima a Piacenza, presso barriera Roma, dagli uomini dell’Ufficio politico della GNR guidati da Filippo Zanoni. Ha con sé due bombe anticarro che, secondo l’accordo con Latty, avrebbe lanciato contro il prefetto Graziani al suo passaggio sul Corso.
Prima della fucilazione Paolo, a don Giuseppe Bonomini che lo confessa dice “Scusi reverendo, ma lei crede che sia così brutto morire? Io non lo credo! Come vede sono calmo. Dica pure che non ho tremato né pianto di fronte alla morte”. Poi chiede di fumare l’ultima sigaretta che gli è offerta dal comandante del plotone d’esecuzione, il sottotenente Sergio Schiavuzzi della GNR. Cerca di opporsi ma invano alla fucilazione alla schiena, praticata ai partigiani perché considerati traditori. Prima della scarica grida: “Viva l’Italia”. Gli è stata conferita la Medaglia d’Oro al Valor Militare.
Due giorni dopo, ad affrontare il plotone d’esecuzione è addirittura un prete: Don Giuseppe Borea (1910-1945), 34 anni, già parroco di Obolo. Unitosi ai partigiani era divenuto cappellano della 38a brigata Garibaldi della divisione Valdarda. Catturato durante il rastrellamento della Turkestan nel gennaio 1945, è processato a Piacenza dal tribunale fascista con diversi a gravissimi capi d’imputazione, fra cui quelli di aver seviziato dei cadaveri e aver tentato di violentare sua sorella. Una montatura finalizzata alla distruzione morale del sacerdote. Ma questa bassezza bastò al giudice per condannarlo a morte. Uno dei componenti del plotone d’esecuzione, sempre comandato da Schiavuzzi della GNR, ricorderà in seguito che don Giuseppe Borea prima della scarica disse: “Muoio innocente. Questa sera quando sarò in paradiso pregherò per tutti voi , non voglio che altro sangue scorra inutilmente e non voglio essere vendicato. Vi raccomando di risparmiare al furore del fuoco il mio viso”. E’ stato insignito alla memoria della Medaglia d’Argento al Valor Militare
21 febbraio 1945 – La rappresaglia fascista con 10 fucilazioni
“Cara Mamma, caro papà, cari fratelli, care sorelle, cari parenti tutti, quando riceverete questo mio scritto sarò già stato ammazzato, sono calmo, non credevo mai di essere così calmo nell’ora del supremo sacrificio. Mamma cara cerca di sopportare il grande dolore che ti arreco e baciami i parenti e Pierino. Vostro che mai più vi rivedrò. Alfredo 21/02/45”. E’ questo il contenuto di un biglietto scritto da Alfredo Borotti per i suoi cari prima di lasciare la sua cella nelle carceri piacentine di via Giordano Bruno. Pochi istanti prima erano arrivati due corriere nel cortile della prigione, mantenendo i motori accesi. Dalle celle i detenuti avevano compreso che qualcosa di brutto stava per accadere e avevano cominciato a sbattere tazzine e piatti contro le sbarre ed a gridare.
Alfredo Borotti , 24 anni, mutilato del braccio sinistro, responsabile del partito comunista a Piacenza, la sua casa utilizzata come stamperia per giornali clandestini antifascisti, viene fatto salire su una delle corriere. Vengono inoltre caricati: Fabio Camozzi, 23 anni, di Vigolo Marchese; Gino Dalla Riva, 19 anni, di Piacenza; Gerolamo Fava, 22 anni, di Francoforte di Siracusa; Adelmo Fiorani, 38 anni, di Milano; i fratelli Francesco e Luigi Manfroni, di 32 e 28 anni, di Piacenza; Fulvio Martucci, 18 anni, di Piacenza; Armando Merlini, 38 anni, di Gossolengo e Armando Zanon, 20 anni, di Bassano di Varese. Tutti partigiani garibaldini della divisione Valdarda, eccetto Fiorani che appartiene alla divisione Piacenza.
Le corriere partono in direzione del cimitero. La scorta è costituita da militi della GNR e della Brigata Nera. Al cimitero i detenuti sono fatti scendere e allineati lungo il consueto muro di cinta. L’esecuzione, che, subisce un breve ritardo a causa del passaggio di un aereo sopra il cimitero, è affidata ai giovani della polizia ausiliaria. Uno di questi, Erminio Merli, ha ricordato: “Sentimmo uno dei dieci che diceva: ”cosa abbiamo fatto di male per essere stati partigiani, anzi mio fratello non è nemmeno partigiano”, poi i dieci furono messi in fila e anche noi fummo schierati”. L’esecuzione era stata ordinata dal prefetto Alberto Graziani come rappresaglia – 10 contro uno, come in uso nell’esercito tedesco – per la fucilazione da parte dei partigiani del federale fascista Antonino Maccagni, suo predecessore alla guida del PNR della provincia. Maccagni era stato catturato dal Ballonaio e da Paolo Araldi il 26 luglio del 1944 a Caratta di Gossolengo, mentre si recava a casa di un’amica. Era poi stato poi portato e custodito in un paese vicino al comando, a La Sanese, della divisione Giustizia e Libertà. Graziani si era sempre rifiutato di intavolare trattative per uno scambio con partigiani prigionieri dei fascisti. Quando i partigiani della divisione GL, incalzati dal rastrellamento della divisione tedesca Turkestan, avevano dovuto abbandonare la Val Tidone e la Val trebbia e rifugiarsi nell’Alta Val Nure, avevano portato con sé Maccagni e gli altri nemici nelle loro mani, perché le disposizioni di Fausto Cossu era di rispettare la vita dei prigionieri. Maccagni era stato passato per le armi solo nel momento in cui, all’inizio del gennaio 1945, i partigiani avevano dovuto abbandonare anche l’alta Val Nure e disperdersi verso il parmense. Forse per questo i famigliari di Maccagni avevano chiesto, ma invano, a Graziani di non dare corso a vendette per la perdita del loro caro.
La diciottesima vittima dei fascisti
Al muro dei fucilati l’ultima esecuzione disposta dal prefetto Graziani, la diciottesima, viene compiuta addirittura la mattina del 25 aprile 1945. Ne è vittima questa volta un sergente della Brigata Nera “Pippo Astorri”, Arturo Ardemagni, fucilato dai suoi compagni perché ritenuto colpevole di collaborare da tempo con i partigiani, facendo il doppio gioco: avrebbe fornito loro preziose informazioni e fatto fuggire sette ribelli. E. M.
Fonti bibliografiche
- Ermanno Mariani, Il Ballonaio, Pontegobbo, Piacenza 2005
- Anna Chiapponi, Piacenza nella lotta di Liberazione, Vicolo del Pavone, Piacenza, 2006
- Ermanno Mariani, Piacenza Liberata, Parallelo 45, Piacenza 2016
- Elenco caduti partigiani