Parroci e cappellani ‘partigiani’

Don Ugo Calza “don Terzo” (cl. 1917), cappellano preso la divisione “Giustizia e Libertà”

 

Nel periodo compreso tra il settembre 1943 e l’aprile 1945, una parte consistente del clero piacentino manifestò nel pensiero e nell’azione un orientamento antifascista, stabilendo rapporti ora saltuari ora organici con le formazioni partigiane. Nella seconda tipologia, quantitativamente minoritaria, l’opera dei cosiddetti ‘cappellani’ godette del placet dell’autorità diocesana che fece sentire la propria voce attraverso un Ufficio Assistenza Religiosa affidato a mons. Ugo Civardi. Nella varietà dei ruoli e delle contingenze storiche l’elemento unificante di questa presenza talare fu l’innesto, dentro un conflitto a tratti asperrimo (vedi, in particolare, i grandi rastrellamenti del luglio 1944 e del novembre 1944 – gennaio 1945), di uno spirito umanitario che consentì di stemperare il dilagare della violenza a protezione di vite umane (in armi e non, in libera condizione e non), di beni materiali (case, bestiame, ecc.) e di riti consolidati e condivisi (ricorrenze religiose, esequie, ecc.).

Le pretese del regime fascista di Salò nei confronti del clero

Il 1° dicembre 1943, presso la Casa Littoria di Piacenza, l’uomo localmente al vertice del rinato regime fascista (cfr. La Rsi nel piacentino), il prefetto/Capo della Provincia Davide Fossa, pronunciò un “forte discorso” sui doveri di ognuno a fronte dello stato di guerra in atto. Da esso si evinceva che il clero piacentino non avrebbe dovuto limitarsi a invocare una pace qualsiasi (dando così voce ad una diffusa aspirazione popolare), bensì sostenere apertamente l’azione militare della compagine nazista-fascista contro gli alleati anglo-americani. Richiamando in specifico il fenomeno dei militari stranieri già prigionieri nel Piacentino tornati liberi dopo l’armistizio dell’8 settembre, di quelli italiani sbandati (cioè quelli sfuggiti alla cattura tedesca) e dei giovani renitenti alla nuova leva della Rsi, Fossa sottolineò che era responsabilità anche dei parroci assicurare la cattura dei primi e la presentazione alle armi degli altri.

L’inizio della ribellione di diversi sacerdoti

Al di là della benevola accoglienza da parte del giornale diocesano (“il clero piacentino non può che approvare le osservazioni che a suo riguardo fa il Capo della Provincia”), questo appello cadde sostanzialmente nel vuoto sia con riferimento al periodo immediatamente precedente avviato dall’armistizio dell’8 settembre che a quello successivo caratterizzato dall’esperienza del partigianato. Al nuovo regime fascista di Salò sotto protezione hitleriana non si conformò più il comportamento di non pochi sacerdoti, soprattutto nella parte montana della provincia. Giovani soldati disertori e prigionieri di nazionalità straniera fuggiti dai campi di detenzione di Veano, Rezzanello e Cortemaggiore trovarono, infatti, protezione e sostegno da parte dei parroci con il concorso della popolazione locale. Valga per tutti il racconto di don Lugi Mussi, parroco di Cogno S. Bassano: “Durante il periodo dall’armistizio del settembre 1943 ad oltre la metà del gennaio 1944, la parrocchia è stata un luogo di continuo passaggio di militari (soldati e ufficiali) nella maggior parte inglesi che, fuggiti dai diversi campi di concentramento, cercavano rifugio sulle montagne. Certuni domandavano indicazioni circa le strade e gli itinerari da seguire, altri domandavano da mangiare e da dormire a seconda dell’ora in cui arrivavano; altri si fermavano qualche giornata per riposare; altri infine si sono fermati per settimane e qualcuno an che più mesi in attesa di mezzi od occasioni per poter rifugiarsi all’estero. Qualcuno si ammalò più o meno gravemente. A tutti indistintamente il sottoscritto ha fornito indicazioni, cibo, alloggio, vestiario e denaro nei limiti del possibile. Quando, per insufficienza di ambienti non poteva alloggiare tutti quelli che a lui ricorrevano, ha disposto perché fossero ricoverati presso altre famiglie della parrocchia. Per quelli poi che si sono fermati settimane e mesi ha organizzato un servizio di approvvigionamento diviso tra le diverse famiglie della parrocchia, servizio che ha sempre funzionato egregiamente.”

Una forma di disobbedienza civile ben nota alle camicie nere che in taluni casi, sulla base di segnalazioni fornite da delatori, comportò un trattamento carcerario per i sacerdoti (per es., il parroco di Leggio don Luigi Guglielmetti, “accusato dall’autorità repubblicana di aver fatto troppa carità agli Inglesi”).

Cappellani nelle formazioni partigiane

Nella primavera 1944, con la nascita delle varie formazioni partigiane nelle valli piacentine, si determinò un posizionamento spontaneo all’interno della lotta antifascista di vari sacerdoti con il fine preminente di garantire un’assistenza di tipo religioso ai ribelli, ma anche con altre implicazioni di tipo organizzativo. Questa interazione tra clero e partigianato fu precoce e molto forte nell’area val Tidone – val Trebbia dove operavano formazioni che facevano capo all’ex-tenente dei carabinieri Fausto Cossu, aggregate dall’agosto 1944 nella Divisione “Giustizia e Libertà”; meno incisiva e, soprattutto, meno documentata fu quell’interazione nella Val d’Arda e nella val Nure, dove le  formazioni partigiane che si richiamavano all’organizzazione nazionale delle “Brigate Garibaldi”.

Una sorta di legittimazione giuridica del clero militante si ebbe con la nomina da parte dell’autorità ecclesiastica di mons. Ugo Civardi in quanto “delegato vescovile per l’assistenza dei partigiani”. Questi, nel giugno 1944, radunò presso la canonica di Bobbiano (comune di Travo) vari sacerdoti ai quali assegnò ufficialmente un compito di assistenza religiosa presso i gruppi partigiani di riferimento. Nacque così una rete ecclesiastica posizionata nelle aree calde della provincia che venne ulteriormente perfezionata qualche mese più tardi con il ritorno alla libertà di mons. Civardi (arrestato nell’agosto e poi rilasciato nell’ottobre in seguito ad uno scambio con un colonnello tedesco). Questa rete comprendeva cappellani divisionali (per es., il parroco di Vidiano don Luigi Carini per la Divisione G. L.) e di brigata (per es., il parroco di Obolo don Giuseppe Borea nella val d’Arda). Anche l’autorità politico-militare fece la sua parte: dietro pressante sollecitazione di Francesco Daveri cui stava molto a cuore l’innesto di un’autorevole presenza cristiana nelle formazioni partigiane, don Giovanni Bruschi, espatriato in Svizzera nel gennaio 1944, rientrò clandestinamente in Italia e raggiunse Bettola dove, agli inizi di ottobre, venne nominato cappellano del Comando Unico, affiancando così il comandante Emilio Canzi.

Compiti dei cappellani ‘partigiani’

Un quadro efficacemente sintetico dei compiti del cappellano ci è stato trasmesso da don Giulio Zoni, curato di Travo e integrato nella divisione “Giustizia e Libertà”: oltre alla formazione religiosa e morale del ribelle, “il cappellano doveva provvedere a tante altre cose. Provvedere cibo, danaro, vestiari [. . .] Il cappellano era il porta ordini e alle volte sostituiva addirittura gli stessi comandanti. Era l’infermiere, l’informatore, la staffetta, il mediatore tra le parti in contesa, colui che procurava gli scambi, il becchino, ecc.”. A questo occorre aggiungere che il cappellano, in quanto parroco o curato, doveva anche provvedere al bene del gregge a lui affidato dal vescovo, divenendo parte attiva di una difficile e a volte rischiosa triangolazione tra Chiesa, movimento partigiano e autorità nazi-fasciste. Questa sovrapposizione di ruoli, come è noto, costò la vita a don Giuseppe Borea, ad un tempo parroco di Obolo e cappellano della 38ª brigata “Garibaldi”.

Don Ugo Calza “don Terzo”

Incarnazione “totale” (e, in questo senso, anomala) del cappellano fu don Ugo Calza “don Terzo”, entrato in servizio presso la Divisione G.L. dietro mandato di mons. Civardi. Il giovane sacerdote alloggiò e consumò pasti presso la canonica di Pecorara, ospite del parroco don Filippo Arcelloni; in via di fatto, non ricoprì la funzione di curato, bensì operò a tempo pieno presso i vari distaccamenti, visitati regolarmente, della più numerosa formazione partigiana piacentina. Il compito di don Terzo fu quello di fornire un’assistenza religiosa ai ribelli (celebrazioni liturgiche, amministrazione dei sacramenti, ecc.) orientando anche, sotto il profilo morale, il loro comportamento combattentistico (“distogliendoli da sentimenti di odio, di violenza e di violenza arbitraria”). Parimenti, il cappellano dedicò diuturne energie alla cura dei feriti e alla gestione “umanitaria” dei prigionieri italiani e tedeschi trattenuti presso la caserma di Pecorara.

Durante il grande rastrellamento del novembre-dicembre 1944 che determinò la perdita del controllo delle valli del Tidone e della Trebbia da parte della formazione comandata da Fausto don Terzo, operativo nella sezione della Sanità, seguì il travagliato viaggio della colonna dei feriti verso il Genovesato condividendone gli stenti e le sofferenze. Attivamente ricercato dai fascisti (il padre e la sorella arrestati per qualche tempo e l’abitazione di famiglia saccheggiata), nella fase della cosiddetta polverizzazione visse in clandestinità con gruppi isolati di partigiani in una situazione di costante pericolo a fronte delle puntate nemiche. Verso la metà di marzo il felice ritorno a Pecorara, di nuovo ospite del parroco, e la ripresa dell’operatività a fianco delle rinnovate forze partigiane. Il 26 aprile 1945 il sacerdote abbandonò definitivamente con gli altri ribelli la sede del comando in direzione di Piacenza (dove sarebbe entrato due giorni più tardi): in quel frangente l’abito talare lasciò il posto ad una divisa militare inglese “con una croce molto visibile sul petto”. Un’immagine festosa e al tempo stesso emblematica del cappellano-patriota: testimonianza vivente di una presenza cristiana (e quindi pacificatrice) all’interno di un movimento di liberazione armato (e vincitore proprio perché armato).

L. O.

Bibliografia

  • “La Scure”, 4/12/1943, Il Capo della Provincia indica con un forte discorso le direttrici della rinascita e dell’onore alle Autorità e Gerarchie
  • “Il Nuovo Giornale”, 9/12/1943, Il forte discorso del Capo della Provincia
  • Nella bufera della Resistenza. Testimonianze del clero piacentino durante la guerra partigiana, a cura di A. Porro, s. e., Piacenza 1985
  • L. Orlandini, Fuori i barbari! Fascismo e Chiesa cattolica nella plaga piacentina, Pontegobbo, Bobbio 2016
  • C. Viciguerra, I cattolici e il clero nella lotta di liberazione nel Piacentino, Parallelo 45, Piacenza 2020