I NAZI-FASCISTI IN VAL TIDONE QUEL 30 LUGLIO 1944: DOPO L’ATTACCO ALLA ROCCA D’OLGISIO
LA STRAGE-RAPPRESAGLIA DI STRÀ
di Romano Repetti
I – Una domenica pomeriggio: l’assassinio di nove innocenti
Percorrendo la strada di fondovalle della Val Tidone a partire da Castel San Giovanni, poco prima di Pianello s’incontra sulla sinistra la frazione di Strà, appartenente attualmente al comune Alta Val Tidone. Dopo l’area del moderno santuario dedicato alla memoria delle vittime civili di guerra, una via stretta, che oggi ha nome “Via Martiri di Strà”, scende fra le case, proseguendo poi con fondo solo ghiaiato fino al vicino torrente Tidone. Nel 1944 era la via centrale del vecchio paese, lungo la quale, di fronte al monumento che oggi ricorda quei martiri, stava una piccola bottega/osteria, della quale tuttora si vede il locale, con la porta d’ingresso affiancata da una apertura sovrastante un piccolo davanzale.
Lì, nel primo pomeriggio del 30 luglio 1944, giorno di domenica, i militari appartenenti ad un raggruppamento italiano-tedesco di ritorno da un fallito attacco ai partigiani insediati nella non lontana Rocca d’Olgisio, dopo aver sostato a mangiare pane e salame e a bere vino, si scatenarono con le loro pistole-mitragliatrici e con bombe a mano contro le persone che stavano in quel locale, nella annessa abitazione e nel luogo circostante, uccidendole tutte: cinque donne fra i 21 e gli 85 anni di età, un bambino di 2 anni e la madre che lo teneva in braccio, un giovane di 16 anni e due uomini molto anziani.
Quattro delle vittime appartenevano alla famiglia Riccardi che aveva servito il cibo ai soldati: Luisa di 21 anni, Maria di 27, Giuseppe di 76, Clementina di 85; il bambino si chiamava Alessandro Falsetti
e sua madre Aurora Vitali di 40 anni; il giovane sedicenne, Primino Mazzocchi, aveva una menomazione mentale certamente evidente a quei soldati che lo avevano in precedenza fermato a Gabbiano di Pianello e costretto, con il carretto a mano che aveva con sé, a trasportare fino a lì pacchi di munizioni; le altre due vittime erano Teresa Cavallari di 42 anni e Cesare Politi di 72. Tutti civili, inermi, pacifici ed estranei al movimento partigiano di lotta contro le forze hitleriane che l’8 settembre 1943 erano arrivate ad occupare l’Italia e contro quelle del ricostituito regime fascista che si era denominato Repubblica Sociale Italiana.
Si definisce strage un eccidio di quattro o più persone compiuto nel corso della stessa azione. Furono diverse le stragi subite dai partigiani e dai civili piacentini da parte dei nazi-fascisti, anche con 20 e più vittime contemporanee, come a Rio Farnese di Bettola, a Passo dei Guselli e alla Rocchetta di Morfasso, ma quella di Strà fu la più brutale e più insensata, e compiuta esclusivamente sulla popolazione civile. Fu anche accompagnata da violenze nei confronti degli altri abitanti di Strà, con incedi di abitazioni, di stalle e di portici, nonché di saccheggi e ruberie.
Sullo svolgimento dell’eccidio e su chi ne erano stati precisamente gli esecutori, se esclusivamente militari della Werhmacht tedesca o anche militari della Rsi fascista – questi sicuramente autori dei saccheggi e delle ruberie – non vi furono poi a Strà persone che potessero darne una testimonianza diretta. Non vi furono perché tutte le persone presenti sul luogo della strage, nella piccola bottega dei Riccardi e all’esterno di essa, furono uccise, compresa la signora Teresa Cavallari che, sentendo gli spari e le bombe, si era affacciata sul luogo dalla sua casa. Le ricostruzioni sulla esecuzione dell’eccidio hanno potuto essere fatte esclusivamente in base alla posizione e alle condizioni in cui furono trovati i cadaveri dopo la partenza da Strà, quel pomeriggio, dei militari nazi-fascisti e su affermazioni di alcuni militari della RSI interrogati durante le istruttorie giudiziali di tempi successivi, affermazioni però alquanto reticenti e rivolte essenzialmente ad escludere ogni personale responsabilità. Non sono comunque mancati nel tempo racconti fantasiosi quale quello che gli autori della strage sarebbero elencati su un biglietto custodito in una bottiglia inserita nel basamento del monumento eretto nell’agosto1945 a ricordo delle vittime.
Ma aldilà degli autori materiali e delle modalità, di quella strage è invece possibile ricostruire con precisione le circostanze in cui fu attuata, la successione dei fatti di quella giornata del 30 luglio ’44 nella media Val Tidone, la dinamica dei comportamenti delle forze militari nazi-fasciste là convenute, il nome delle formazioni a cui appartenevano, in parte anche i nomi di quei militari. Esistono infatti documenti dell’epoca di parte fascista e di parte partigiana, trascurati nei passati racconti giornalistici della vicenda, esistono gli atti dei procedimenti giudiziari richiamati, su cui ha riferito a suo tempo il giornalista/storico Ermanno Mariani, ed anche atti giudiziari tedeschi che più di recente il ricercatore storico Claudio Oltremonti è riuscito a consultare. Mettendo a confronto i contenuti dei diversi documenti e vagliando alla luce di questi le testimonianze locali raccolte in tempi diversi, si può comporre un quadro abbastanza completo ed affidabile di quella
drammatica giornata. E’ il compito di questo scritto.
II – L’antefatto della mattina: l’attacco ai partigiani insediati nella Rocca d’Olgisio.
Il 30 luglio 1944, poco prima dell’alba, era giunto nella media Val Tidone, su automezzi, un forte raggruppamento di militari italiani della RSI e germanici, con diversi ufficiali ed un comandante in capo tedesco, per attaccare i partigiani insediati nella Rocca d’Olgisio, situata su un colle rupestre del comune di Pianello, non lontano dalla stessa Strà. Quel maniero, dominante il territorio fra le valli del Tidone e del Chiarone nonché la strada carrozzabile del tempo fra Pianello e Pecorara, era diventata la naturale sede di un presidio partigiano. A partire dal giugno ’44 vi si era insediato un distaccamento della formazione partigiana che si era andata costituendo fra Val Tidone e Val Trebbia sotto la direzione dell’ex ufficiale dei carabinieri Fausto Cossu, distaccamento al comando di Antonio Piacenza, giovane ingegnere piacentino, già ufficiale di Marina passato fra i ‘ribelli”. Dalla Rocca d’Olgisio partivano incursioni verso la pianura, agguati ad automezzi nemici sulla via Emilia e lì venivano custodite armi catturate da distribuire anche ad altri distaccamenti partigiani. (Nell’agosto successivo, la formazione di “Fausto”, cresciuta con nuove adesioni fino a circa 2.000 componenti, si denominerà Divisione partigiana Giustizia e Libertà e il raggruppamento al comando di Antonio Piacenza ne diverrà la 1a Brigata).
Alcuni giorni innanzi quel 30 luglio un colpo di mano sulla via Emilia pavese era stato compiuto da una squadra guidata dallo stesso Antonio. Inoltre l’estroso capo partigiano Giovanni Lazzetti, noto come “Ballonaio”, ed il suo gruppo di “audaci”, insediati nel vicino comune di Piozzano, avevano catturato sulla stessa Via Emilia un autocarro tedesco carico di diverse centinaia di moschetti e nella stessa giornata asportato altre armi ed equipaggiamenti dalla caserma S. Anna di Piacenza. Era un grave schiaffo per le autorità e le forze militari tedesche e fasciste, per la vulnerabilità dimostrata e perché quelle armi avrebbero rafforzato le formazioni partigiane. Con la spedizione del 30 luglio si proponevano quindi di recuperare armi ed automezzi, e di colpire duramente i partigiani della zona, a cominciare dal loro presidio più avanzato, quello appunto insediato nella Rocca d’Olgisio sopra Pianello.
Le autorità militari fasciste avevano messo assieme quella spedizione punitiva attingendo da tutti i loro corpi presenti a Piacenza: Gnr (Guardia Nazionale Repubblicana), Decima MAS, Brigata Nera Pippo Astorri e ufficiali in servizio presso la Direzione d’Artiglieria connessa all’Arsenale militare.
Quelle tedesche, avendo l’esercito impegnato a fronteggiare l’avanzata degli Alleati in Toscana e nelle Marche, disponevano in quel momento di poche forze a Piacenza. Il comandante della Piazza, maggiore Bleker, poteva contare normalmente su squadre della “Feldgendarmerie”, cioè della tradizionale polizia militare, ma da qualche tempo era stato trasferito in Italia anche il 15° Reggimento di Polizia S.S., e Bleker poté disporre di anche di alcuni componenti la 2ª compagnia di quel reggimento, riconoscibili fra i militari tedeschi partecipanti a quella spedizione per le loro uniformi mimetiche. Erano soldati provenienti dal fronte orientale, dai territori dell’Unione Sovietica, dove erano stati impiegati nelle azioni di sterminio di partigiani e civili resistenti agli invasori tedeschi, nonché per lo sterminio delle persone di origine ebraica anche se non resistenti. E’ noto che nei territori dell’Urss, a seguito delle disposizioni date da Hitler, vennero abbandonate le regola del diritto internazionale di guerra e l’esercito tedesco fece ricorso ad ogni possibile brutalità per terrorizzare la popolazione e provocare il collasso delle forze armate sovietiche. Ed è noto che le forze militari tedesche avevano avuto l’ordine di applicare in Italia le disposizioni già date da Hitler per la guerra contro l’Unione Sovietica.
Il fatto che un gruppo di quegli uomini addestrati e abituati ai massacri a sangue freddo fosse incluso nella spedizione del 30 luglio in Val Tidone fa pensare che una strage fosse preordinata: probabilmente, nel caso Rocca d’Olgisio fosse stata espugnata, innanzitutto nei confronti dei partigiani che si trovavano là.
A capo della spedizione fu messo un capitano tedesco anche se la più parte dei militari impiegati, delle armi pesanti e degli automezzi, appartenevano ai corpi militari italiani.
L’attacco a Rocca d’Olgisio è descritto nel modo seguente in uno stringato rapporto inviato il 12 agosto ‘44 dal Comando provinciale della GNR al loro Comando nazionale a Brescia e personalmente a Mussolini:
“Il 30 luglio ’44, alle ore 5,30, in Rocca d’Olgisio, reparti della G.N.R, della X MAS e militari tedeschi, effettuavano un’azione di rastrellamen- to contro il quartier generale dei banditi. Venuti a contatto con il nemico, i nostri aprivano un nutrito fuoco appoggiato da tre autoblindo, due mitragliere da 20, due anticarro da 47, un mortaio da 81 ed un pezzo da 88. Ma la schiacciante superiorità di mezzi del nemico costringeva i nostri a ritirarsi dopo lunga e accanita lotta. Mentre si ignorano le perdite nemiche, i nostri avevano complessivamente due morti e sei feriti”. E’ un documento breve ma rilevante per ben tre aspetti. Innanzitutto perché non riferisce, e quindi nasconde, che quel “rastrellamento” antipartigiano si era concluso con l’eccidio a Strà di nove civili estranei alla lotta partigiana. E’ probabile che a compiere quella strage siano stati materialmente solo militari tedeschi, ma la connivenza di quelli della RSI è sottolineata anche da quel silenzio.
In secondo luogo quel rapporto evidenzia la potenza di fuoco dei rastrellatori: automezzi blindati, un potente cannone (il “pezzo da 88” del quale esamineremo più avanti la dislocazione e l’utilizzo), due altri piccoli cannoni anticarro, un mortaio e potenti mitraglie. Se ne deduce che, oltreché coraggiosi, furono assai abili combattenti i partigiani dislocati a Rocca d’Olgisio, nel fronteggiare, con un armamento ben più modesto, quel poderoso attacco e nel costringere i nemici alla ritirata. Fu poi riferito che in verità alcuni giovani del tutto inesperti di combattimento, intimoriti dall’apparato bellico nemico, avevano subito abbandonato la Rocca, e che decisiva per l’organizzazione della resistenza degli altri componenti il presidio fu l’esperienza e la determinazione del comandante Antonio Piacenza.
In terzo luogo, il rapporto della Gnr registra le perdite subìte dagli attaccanti: due morti e sei feriti. Incrociando questa informazione con altre a fonte tedesca se ne deduce che dei due caduti uno era certamente un militare italiano di parte fascista, l’altro un sottufficiale tedesco, di cui vedremo più avanti le circostanze della morte. Pure dei feriti è documentato che almeno tre erano tedeschi e furono poi ricoverati all’Ospedale militare di Piacenza
Sulle base delle testimonianze, di partigiani e di militari della RSI presenti, si può ricostruire l’andamento dell’attacco e dei combattimenti. Gli attaccanti, partiti da Piacenza, arrivarono nei pressi della Rocca prima dell’alba, verso le 5,30, salendo da Pianello lungo la strada per Pecorara. A questa la Rocca era collegata, diversamente da oggi, verso il basso da una ripida e stretta pista, ora contrassegnata solo dalla linea elettrica che l’affiancava. Dopo che gli aggressori si furono appostati, con un altoparlante fu intimata la resa ai partigiani presenti nel maniero. Questi risposero invece con scariche di fucile e raffiche di arme automatiche. Si accese il combattimento. I militari della RSI ed i tedeschi indirizzarono verso la Rocca un intenso fuoco con le loro mitraglie e con i due pezzi anticarro. Un’autoblinda – grosso autocarro Fiat 666 N corazzato e trasformato all’arsenale di Piacenza, in dotazione alla Gnr – cercò di avvicinarsi alle mura sulla stretta pista in salita, sventagliando con la mitragliatrice posta nella sua torretta girevole, ma l’unica mitraglia dei partigiani rimasta efficiente, manovrata da un esperto ex alpino, la colpì ripetutamente, mettendone in pericolo gli occupanti e i soldati che la seguivano al coperto. La “blinda” fece allora una serie di manovre difficoltose per arretrare. “Alle 9 circa ci fu il primo ferito, un soldato tedesco”, ha raccontato l’ufficiale della Gnr Giovanni Isola, proseguendo: “Allora il capitano tedesco (che era a capo della spedizione) ordinò ad un suo sottufficiale di portarsi a Piacenza per fare intervenire nuove armi e nuove munizioni e (ci) ordinò il ripiegamento fino a due chilometri a valle di Pianello. Dal castello intanto intensificarono il fuoco”.
Durante la ritirata, iniziata verso le ore 10, gli attaccanti in rotta ebbero il primo caduto e altri feriti. Nella sua relazione sulla battaglia il comandante Antonio Piacenza scrisse: “Avevamo esaurito quasi tutto il munizionamento (ma) a mezzogiorno avemmo la sensazione di aver vinto”. La battaglia però non era finita; proseguiva infatti quella relazione: “I nazifascisti si fermarono esausti a Strà e (da lì) iniziarono un tiro di artiglieria con pezzi da 88, riuscendo a piazzare colpi sulla Rocca che però resistette solidamente con le sue possenti mura”.
III – Quel cannone a Strà. Il capo-pezzo colpito a morte. La rappresaglia.
Evidentemente nel frattempo le “nuove armi” richieste a Piacenza dal capitano tedesco erano arrivate: in concreto un cannone identificato con la sigla 88/27, del peso di 18 quintali, posto su ruote e trainabile da un’autoblindo, capace di una gittata di 12.000 metri. Era stato piazzato appena sotto Strà nel campo lungo il tratto di strada che dal paese giunge al torrente Tidone, con a fronte e visibile la Rocca d’Olgisio a circa 5.000 metri in linea d’aria. E, dopo che gli attaccanti
si erano ritirati, incominciò appunto a sparare i suoi grossi proiettili in direzione del maniero, visibile ad occhio nudo. I militari tedeschi e della RSI, giunti a Strà e inoltrati i feriti verso Borgonovo, si erano fermati nella frazione; alcuni si fecero servire dalla piccola bottega quegli unici generi alimentari di cui disponeva, pane, salame e vino. Intanto il cannone inviava alla Rocca i suoi grossi proiettili esplosivi. La sosta a Strà fu lunga. Aspettavano che il cannone esaurisse la scorta di granate per rimorchiarlo dietro un automezzo e tornare tutti a Piacenza? O attendevano che le mura e gli edifici della Rocca d’Olgisio fossero demoliti da quelle granate per tornare poi all’attacco e fare finalmente un eccidio di partigiani? O la loro missione era quella di lasciare comunque in quella zona della Val Tidone un segno sanguinoso, un monito terrorizzante, e aspettavano il momento di metterlo in atto?
Colpisce fra l’altro che se ne stessero lì – una parte al centro del paese a ristorarsi e alcuni un po’ più giù attorno al cannone – senza chiedersi e preoccuparsi di quello che nel frattempo avrebbero fatto i partigiani, senza predisporre un servizio di allerta e di copertura. Anche perché nel frattempo, avvertita la battaglia in corso nella zona di Pianello, erano arrivati in soccorso dei partigiani di Rocca d’Olgisio altri gruppi provenienti dal territorio di Pecorara, di Piozzano e di Travo, fra cui la squadra del Ballonaio. Si tenevano a distanza dagli avversari concentrati a Strà ma ne sorvegliavano le mosse.
La testimonianza di uno di quei partigiani, firmata “Filippo” – ma sicuramente di Lodovico Muratori, conosciuto come Muro e futuro comandante dell’11a Brigata GL – si può leggere nel numero del 15 agosto ’44 de “Il Grido del Popolo”, periodico partigiano stampato a Bobbio, la cittadina della Val Trebbia della quale le forze nazi-fasciste avevano perso il controllo il precedente 7 luglio e che era fornita di due piccole tipografie. Afferma quella testimonianza: “I tedeschi, uniti ad un gruppo di fascisti, avevano piazzato un cannone vicino alla frazione di Strà e da lì, dopo che l’attacco della mattinata era stato sanguinosamente respinto, battevano la Rocca d’Olgisio. Andammo in esplorazione con la valorosa squadra del Ballonaio … mentre un gruppo di arditi sparava con il mitragliatore contro il nemico dal fondovalle. … uno (dei nemici) cadde colpito.
Coloro che erano scesi nel “fondovalle” – probabilmente non più di una copia partigiani – si erano posizionati in un campo di granoturco a fronte di Strà ma dall’altra parte del Tidone, da cui la visibilità verso la frazione non era ostacolata dalla disordinata vegetazione di oggi. Da lì spararono in direzione del cannone, evidentemente mirando in particolare a chi appariva il capo-pezzo: da una testimonianza risulterebbe che fu sparato un solo colpo, per non essere individuati e perché quel primo colpo andò a segno. Fu infatti subito colpito a morte il sottufficiale tedesco che sovrintendeva a quella postazione d’artiglieria, un militare di professione giunto al grado di maresciallo. Poco tempo dopo – erano circa le ore 15 di quel pomeriggio – i soldati che stavano al centro del paese misero mano ai mitra e alle bombe e fecero strage di tutti gli abitanti che avevano sottomano; si diedero inoltre ad incendi e a saccheggi.
Poi tutti salirono sui loro automezzi e si allontanarono in direzione di Borgonovo. Una reazione rabbiosa e spontanea di quei soldati alla perdita del loro camerata? Giudicando quelle donne, quegli anziani, quel bambino, che stavano dentro o presso la piccola bottega, corresponsabili della sua morte? No, non c’era proprio motivo perché scattasse nei soldati un improvviso impulso omicida nei confronti di quei pacifici ed innocenti esseri umani. Fra l’altro, i militari che sostavano nel luogo dove venne attuata la strage non aveva assistito alla morte del sottufficiale, colpito accanto al suo cannone posizionato in un campo oltre le case del paese. Massacri di quel tipo anche soldati tedeschi potevano compierli solo a seguito di un ordine preciso dei loro superiori. E’ indiscutibile quindi che ci fu un tale ordine, quasi certamente da parte del capitano della Wehrmacht a capo di quella spedizione. Chi ne aveva il potere decise che fosse attuata una rappresaglia terroristica, una rappresaglia tipica della barbarie nazista: dieci contro uno. In tal modo ci si vendicava dello smacco e della umiliazione subiti con il fallito attacco ai partigiani insediati nella Rocca d’Olgisio.
E non importava quali fossero le vittime della rappresaglia, le persone massacrate. Anzi, quanto più erano estranee ed innocenti tanto più gli italiani avrebbero imparato a temere qui soldati e a sottostare al tallone di ferro della Germania nazista. E se furono solo nove le vittime e non dieci fu forse perché i carnefici non ebbero al momento altri esseri umani sottomano o perché non furono in grado di contare con precisione le vittime, dato che una parte di esse furono uccise con il lancio di bombe in un locale annesso alla bottega di Strà nel quale le avevano spinte dentro. Non sappiamo se a compiere il massacro furono solo i militari hitleriani, in particolare gli appartenenti alla Polizia S.S. I militari italiani della RSI fascista ne furono in ogni caso conniventi e quindi corresponsabili, non solo con l’assistere almeno in modo passivo all’eccidio ma anche contribuendo ad incendiare alcuni caseggiati e cascine e dedicandosi, più dei tedeschi, ai saccheggi e alle ruberie.
IV – Nessun militare tedesco pagò per quel crimine di guerra. Sei della Rsi subirono alcuni periodi di detenzione.
Non mancò tuttavia, qualche anno fa a Piacenza chi, in un suo libretto, ha cercato di “spiegare”, in pratica giustificare, la strage dei nove innocenti con la morte del maresciallo tedesco, presentandolo quale vittima di un “assassinio proditorio”, compiuto cioè a tradimento, e l’eccidio dei nove civili quale rappresaglia “legittimata”, se non da norme, da consuetudini di guerra. A quella tesi giustificazionista dell’eccidio, presentata in incontri ospitati anche in sale pubbliche di comuni della Val Tidone, hanno aderito altre persone, note generalmente quali simpatizzanti del passato regime fascista. In realtà il militare tedesco perse la vita perché colpito nel corso della battaglia di quel 30 luglio, mentre dirigeva il bombardamento
alla Rocca, fu cioè una delle vittime dell’attacco portato dal raggruppamento militare nazi-fascista, di cui faceva parte, ai partigiani di Rocca d’Olgisio. E l’uccisione dei nove civili inermi ed innocenti – da un bambino di 2 anni ad una anziana donna di 85 – fu uno atto puramente barbarico, uno dei tanti che caratterizzò, anche in Italia – si pensi a Marzabotto e a Sant’Anna di Stazzema – la guerra dell’esercito hitleriano, al cui fianco e servizio Mussolini e i fascisti nel settembre 1943 schierarono le forze militari del loro ricostituito regime.
La rappresaglia contemplata dalle convenzioni internazionali sulla guerra riguardava casi come quello in cui una delle parti militari non rispetti il diritto alla vita dei militari nemici fatti prigionieri. Se i prigionieri venivano uccisi, anche la parte militare opposta, allo scopo di far cessare quell’illegittimo comportamento, avrebbe potuto fare la stessa cosa con i nemici da essa catturati, rispettando però il criterio di proporzionalità. Nessuna norma né consuetudine legittimava di ritorcere sulla popolazione civile inerme le perdite avvenute in scontri fra le opposte parti armate.
Dai documenti tedeschi rintracciati da Claudio Oltremonti risulta che anche la competente Procura della Germania federale – ma solo nel 1965, quando ricevette dall’Italia il fascicolo relativo alla strage di Strà – avviò un’indagine per accertare l’eventuale punibilità degli esecutori tedeschi, quali autori di un crimine di guerra. E pure il procuratore incaricato dell’istruttoria nella sua relazione ha affermato che la strage non poteva essere giustificata come rappresaglia. Concludeva,
tuttavia, sostenendo che l’eccidio appariva “eseguito senza modalità crudeli” (!) e rientrava pertanto nella fattispecie del delitto “doloso senza aggravanti”, reato che secondo il Codice penale della Germania federale nel 1965 era già caduto in prescrizione a seguito degli anni trascorsi dal fatto. Per cui l’indagine fu chiusa in istruttoria e non si procedé neanche alla individuazione dei militari autori dell’eccidio. In realtà i comandanti delle forze armate hitleriane calate in Italia non si preoccupavano di operare nell’ambito delle norme e consuetudini di guerra sancite dalle convenzioni internazionali. Compivano premeditatamente gli eccidi senza preoccuparsi di giustificarli in qualche modo. A Sant’Anna di Stazzema e a Marzabotto le vittime civili delle stragi naziste sono state rispettivamente 560 e 1.836: civili inermi uccisi per fare il vuoto di ogni presenza italiana in territori in cui era prevista la dislocazione di reparti tedeschi contro le forze militari angloamericane che avanzavano dal centro Italia verso il nord. Per quanto riguarda i militari della RSI, fra quelli arrestati e processati a Piacenza dopo la Liberazione ve ne furono sei accusati, oltre che di altri delitti, della partecipazione ai fatti di sangue di Strà: due ufficiali, due sottufficiali e due militi. Subirono prime condanne e fecero qualche periodo di carcere ma in seguito a successivi provvedimenti di amnistia quattro di essi tornarono liberi fra il 1946 ed il ’48 e due all’inizio degli anni cinquanta. Un altro milite pure condannato rimase latitante fino all’amnistia concessagli nel 1948.
V – Una comprensibile reazione dei famigliari delle vittime
Gli esponenti partigiani, quale “Muro”, giunti a Strà poco dopo che i militari nazi-fascisti avevano lascito la frazione, oltre all’orrore provato personalmente per la scena raccapricciante che videro, raccontarono lo sgomento e la disperazione dei famigliari e parenti delle vittime di mano in mano che giungevano sul luogo della strage. Riferirono anche che alcuni di quei famigliari se la presero con loro per la morte dei loro cari. Uno sfogo comprensibile perché quei parenti disperati che non avrebbero osato avvicinare ed accusare i militari nazi-fascisti e che si erano tenuti lontani dal luogo della strage finché quelli non se ne erano andati, ora, sapendo che dai partigiani non avevano nulla da temere sfogavano nei loro confronti il proprio dolore. Non perché qualcuno di questi aveva colpito a morte il militare tedesco, in quanto la dinamica della strage-rappresaglia nessuno l’aveva vista e infatti chi poi tenterà di raccontarla sulla base di testimonianze di residenti a Strà – compreso lo stesso Ermanno Mariani nel suo libro del 2004 – indicherà ipotesi diverse su quella morte rispetto alla presente ricostruzione basata su documenti del tempo. Li accusavano semplicemente di avere provocato con la loro presenza nella zona l’arrivo di quegli spietati militari nazi-fascisti. Prime reazioni di questo tipo, nel caso di eccidi della popolazione
civile, si ebbero da parte dei sopravvissuti in altri luoghi, anche a Sant’Anna di Stazzema e a Marzabotto. I famigliari di giovani con almeno 18 anni e di adulti anche avanti negli anni ma ancora in condizione di lavoro, della Val Tidone e di tutta la provincia di Piacenza, sapevano però bene che senza la nascita del movimento partigiano di resistenza quei loro cari sarebbero stati arruolati, armati e costretti a fare la guerra e a morire per la Germania, o ad essere deportati in quel Paese probabilmente per morirvi stremati dalla fame e dal lavoro coatto nelle sue fabbriche di guerra. Tanto è vero che prima della nascita in Val Tidone del movimento partigiano, all’arrivo nel comune di Piozzano, il 24 gennaio 1944, di un reparto della Gnr per catturare i giovani renitenti all’arruolamento nell’esercito della RSI, furono i loro stessi famigliari, i loro padri, ad organizzarsi spontaneamente e a fronteggiare con i loro fucili da caccia i militari di quel reparto presso la frazione di Vidiano, in un’agguato in cui persero la vita due di quei militari e quattro rimasero feriti.
VI – La presa di posizione del Comitato di Liberazione Nazionale piacentino
La strage di Strà fu naturalmente denunciata dai fogli clandestini della Resistenza, in specifico tramite un comunicato a firma del Comitato di Liberazione Nazionale di Piacenza pubblicato sul numero del “Grido del Popolo” già citato. Diceva fra l’altro:
“Domenica 30 luglio 1944, in località Strà di Nibbiano, furono trucidati senza giustificato motivo, da elementi appartenenti alla forze armate tedesche, i seguenti civili (seguivano i nomi delle vittime e la loro età). Tale eccidio non ha bisogno di commento, essendo più che sufficiente la considerazione dell’età e del sesso delle vittime, e del modo in cui furono uccise. Ancora una volta, con questo massacro, che da solo basterebbe a macchiare d’infamia per sempre anche il popolo meno civile della terra, vengono smascherate la crudeltà e l’ipocrisia teutoniche. (Oggi) ci inchiniamo commossi davanti alle vittime innocenti, (ma) siate certi che tutti i misfatti commessi dai tedeschi e dai loro sicari fascisti saranno vendicati.”
VII – ROCCA D’OLGISIO NELLA LOTTA PARTIGIANA FINO ALLA LIBERAZIONE
L’incursione tedesca del 27.12.’44: 2 partigiani uccisi e 10 deportati
Dopo il respinto attacco nazi-fascista del 30 luglio 1944, la Rocca d’Olgisio rimase più che mai un presidio strategico dei partigiani in Val Tidone. Con l’adesione di tanti nuovi resistenti che si verificò durante quell’estate, la Brigata al comando di Fausto Cossu diventò una Divisione e il distaccamento di Rocca d’Olgisio al comando di Antonio Piacenza ne divenne la 1a Brigata, Brigata “Diego” dal nome del primo caduto della formazione. La sede del Comando di Divisione stava a La Sanese, in comune di Pecorara, ma alcune riunioni del Comando, di cui faceva parte anche Antonio Piacenza, si tennero proprio nella Rocca d’Olgisio. Nel mese di settembre i partigiani della Brigata “Diego” cacciarono da Pianello il presidio militare fascista e insediarono un nuovo sindaco ed una nuova amministrazione comunale, antifascista. Entro l’ottobre ’44 i partigiani avevano liberato tutto il territorio collinare e montano della provincia di Piacenza dalla soggezione ai nazifascisti e questi vedevano in pericolo anche il proprio controllo sui centri urbani della pianura. Reagirono le autorità militari tedesche portando nel piacentino una intera loro Divisione, con migliaia di uomini forniti dai mezzi di guerra più potenti: la Divisione Turkestan composta anche da soldati reclutati di forza in zone asiatiche dell’Urss, chiamati “mongoli” dai piacentini. Il 23 novembre iniziò così un poderoso attacco/rastrellamento a partire dal territorio di Pianello e di Nibbiano. I partigiani cercarono di fermare i reparti nemici, subirono morti e feriti e rimasero presto a corto di munizioni.
Fausto Cossu fu costretto a dare l’ordine di sganciamento. Anche gli uomini di Antonio Piacenza dovettero abbandonare la Rocca, dopo aver fatto saltare con la dinamite una torre contenente la parte di armi ed altri materiali che non potevano portare con sé. I partigiani insediati in Val Tidone si ritirarono in Val Trebbia e ne risalirono il versante verso la Val Nure, sempre incalzati da reparti della Turkestan. Ma pure la Val Nure era già stata investita dal rastrellamento anche dal basso. La situazione diventava sempre più drammatica. Le formazioni partigiane in parte si sbandarono e si divisero in diversi gruppi, ognuno alla ricerca del modo di sfuggire alla cattura e alla morte. Un gruppo di dodici, tutti appartenenti alla Brigata “Diego”, dopo aver raggiunto Ferriere in alta Val Nure, scese a Santo Stefano d’Aveto. Ma anche in quella vallata stavano arrivando reparti della Turkestan. Allora quei dodici decisero di ritornare in Val Trebbia. Risalito, in quel rigido inverno, il territorio montano di Ferriere e attraversato quello di Coli, giunsero nei pressi di Perino. Ma, racconterà anni dopo uno di quegli uomini “Perino era già presidiato dai tedeschi e (per sottrarci alla cattura) fummo costretti ad ttraversare il Trebbia a nuoto, nudi, tenendo con una mano i vestiti fuori dall’acqua”. Infreddoliti, affamati, non trovando altro posto in cui rifugiarsi, tornarono alla Rocca d’Olgisio, pensando di potervi stare per il momento nascosti, disarmati.
Era il 22 dicembre di quel 1944. Ma nella prima mattinata di cinque giorni dopo, forse informati da una spia, all’alba salì alla Rocca un reparto tedesco e prese quegli uomini di sorpresa. Due tentarono comunque di fuggire, dalla porta e lungo il sentiero verso i Chiaroni. Furono però raggiunti dai colpi sparati contro di loro. Vincenzo Sartori, 21 anni, di Gragnano, fu colpito a morte a circa 300 metri oltre la porta, là dove lo ricorda una piccola lapide fissata sulla roccia. Il secondo rimase gravemente ferito ma riuscì, sanguinante, a proseguire fino ai Charoni. Lì alcuni abitanti della frazione lo trasportarono su un carretto all’ospedale di Borgonovo. Nonostante l’intervento dei sanitari, morì due giorni dopo. Aveva anche lui 21 anni. Si chiamava Giovanni Battista Graziani ed ero originario della provincia di Vicenza. Aveva fatto parte della Divisione Alpina Monterosa addestrata in Germania e riportata in Italia nel luglio del ’44 per essere utilizzata contro i partigiani. Ma lui si era subito uniti a questi, disertando dall’esercito di Mussolini. Dall’inizio di agosto aveva appunto fatto parte della for
mazione di Antonio Piacenza insediata nella Rocca d’Olgisio. Gli altri dieci compagni delle due vittime, catturati e portati via dalla Rocca dai militari hitleriani non erano destinati a miglior sorte.
Dopo una breve detenzione in provincia di Piacenza furono infatti inviato al Polizeiliches Durchgangslager di Bolzano-Gries, gestito dalle 24 SS tedesche quale campo di transito di persone destinate, appena fosse formato un convoglio ferroviario, ai lager germanici di annientamento attraverso il lavoro e la fame. I bombardamenti anglomericani avevano però fortemente danneggiato le linee ferroviarie tedesche, i trasferimenti cessarono, la fine della guerra era prossima, e cosi
82 piacentini, fra cui i dieci catturati nella Rocca d’Olgisio, subirono grandi sofferenze anche in quel campo ma ebbero salva la vita. Sette di essi risiedevano nel comune di Calendasco: Belfanti Renato, Calza Dante, Gobbi Emilio, Gobbi Pierino, Losi Andrea, Mori Aldo e Rossi Angelo. Di Gossolengo era Cornelli Domenico, originario di C.S.Giovanni Brega Claudio Carlo, proveniente dalla provincia dell’Aquila Del Grande Enrico. La Rocca d’Olgisio tornò nelle mani dei partigiani verso la fine del febbraio 1945, quando le diverse formazioni partigiane si ricostituirono e le forze nazifasciste cominciarono a battere in ritirata. Con la riorganizzazione della Divisione al comando di Fausto Cossu, il territorio di Pianello entrò nelle competenze di una nuova Brigata, la 8a al comando di Enrico Rancati “Niko”, piacentino di 29 anni, che pose anche lui il suo Comando nella Rocca. Da lì, l’8 marzo partì ancora una volta l’attacco al presidio fascista di Pianello, una quarantina di militari asseragliati nella Rocca-Municipio, i quali finirono per arrendersi. Pianello Val Tidone ed il suo territorio furono definitivamente liberati e la popolazione poté finalmente pensare al proprio futuro, nella dura eredità di una guerra durata cinque anni, ma in una condizione di pace, di libertà e di democrazia.
Bibliografia e fonti
• Achilli Pietro, La Val Tidone nei giorni della lotta partigiana. Diario di un seminarista tornato in famiglia a Pianello a causa della guerra, Pontegobbo, 2016.
• Don Filippo Arcelloni, Pecorara nella bufera della Resistenza, Pontegobbo, 2013.
• Grido del popolo, Anno I, n. 1, 15.8.1944, reperibile nel sito www. stampaclandestina.it
• Mariani Ermanno, L’eccidio di Strà e la banda Maroder-Pasini, Pontegobbo, 2004.
• Notiziario della Guardia Nazionale Repubblicana del 12.8.1944, nel sito www.notiziarignr.it.
• Oltremonti Claudio, Nelle S.P.I.R.E. del regime, Createspace Indipendent Pub, 2017.
• Piacenza Antonio, La battaglia di Rocca d’Olgisio, documento riprodotto in “Storia della Resistenza nel piacentino” di Antonino La Rosa, TIP.LE.CO, 1985.
• Repetti Romano, Un doloroso fatto di sangue ed anche un vagito di Resistenza, in “Pagine della Resistenza piacentina”, a cura di Gazzola Maria Vittoria, Editoriale Libertà, 2015.
• Spazzapan Barbara, I deportati piacentini a Bolzano, in “Rinchiudere un sogno – Da Piacenza ai lager nazisti”, a cura di Antonini Carla, Scritture, 2017.
• www.straginazifasciste.it
L’estensore di questa ricostruzione, Romano Repetti, laureato in scienze politiche, è stato autore dei volumi “Sindaci senza partiti – Vita politica ed amministrativa a Piacenza dopo la svolta del 1994”, Pontegobbo, 2006, e, assieme a Gian Luigi Cavanna, di “Comandanti partigiani giunti da lontano”, Pontegobbo, 2018, nonché di diversi saggi storici pubblicati da riviste o in volumi collettanei.